Sette miti da sfatare sul vermouth: intervista a Giorgio Bargiani e Leonardo Leuci
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Due super esperti dicono la loro su quello che serve per portare il vermouth a nuove grandezze di utilizzo e conoscenza. Il caso del Salone del Vermouth

C’è vermouth e vermouth, questo è ormai (per fortuna) chiaro. Un prodotto storico e identitario per il territorio italiano, piemontese nello specifico, grazie alla denominazione di Vermouth di Torino Igp ottenuta lo scorso anno, che oggi più che mai è protagonista assoluto in miscelazione, grazie alle sue varianti che possono incontrare il favore della fantasia dei bartender e dei desideri dei consumatori. Ciononostante, rimangono alcuni paletti che proprio gli operatori del settore hanno costruito negli anni e paradossalmente costringono il vermouth a lottare più del dovuto per poter affermare il proprio vero valore.
Ci pensano allora Giorgio Bargiani, Assistant Director of Mixology al Connaught Bar di Londra e volto di Bottega Cinzano, presentato nelle nuove vesti all’ultimo Salone del Vermouth, e Leonardo Leuci, patron del Jerry Thomas Project di Roma e creatore di Vermouth Del Professore, a sfatare alcuni dei miti più duri a morire.

1) Il vermouth va usato soltanto nelle ricette da aperitivo

C’è molto di più. «I cocktail di scuola americana – secondo Bargiani – sono divenuti celebri, e poi tornati in auge, grazie al vermouth: e sono storicamente drink dal tenore alcolico sostenuto, da consumare in altri momenti della giornata che non siano in aperitivo. Il vermouth è previsto inoltre nella miscelazione asiatica, ha somiglianze con prodotti storici greci, insomma ha una versatilità che per ciascuna coordinata geografica lo vede utilizzato in diverse occasioni di consumo».

2) Il vermouth non può essere shakerato

La shakerata è uno dei tabù più duri a morire, ma Leuci la pensa diversamente: «È parte di una sorta di codice che i bartender si sono dati a partire dagli anni ’50/’60. Eppure numerosi testi del pre-proibizionismo riportano cocktail con il vermouth, anche in quantità importanti, che vengono shakerati. C’è addirittura il vermut batido in alcuni libri cubani, perché l’estetica era un aspetto secondario, per cui l’eventuale aspetto opaco del risultato non veniva troppo considerato. E d’altronde è così che dovrebbe essere: se shakero un drink con vermouth o un vermouth da solo, e ottengo un buon risultato, perché no? Nulla è scritto nella pietra».

3) Il vermouth non funziona nella miscelazione Tiki

«È vero che Don the Beachcomber non sedeva su barili di vermouth – racconta Bargiani – ma ci sono evidenze storiche del suo utilizzo in miscelazione tropicale, anche a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. E non è solo una questione storica: nel Tiki si trova un importante uso di bitters, intesi come bitter aromatici versati in piccole quantità, che in una rivisitazione possono essere sostituiti dal vermouth, con le sue espressioni dolci, secche». E poi una provocazione: perché non provare a lavorare per un Italian Tiki, usando il vermouth come ingrediente principale?

4) Il vermouth ha rilevanza soltanto nella cultura italiana

Come racconta Leuci, «il vermouth è la chiave di volta nell’evoluzione dei cocktail per come li conosciamo oggi. Prima del suo avvento, il cocktail era una categoria minore, poco profonda e poco fantasiosa. La complessità del vermouth aprì un nuovo mondo, sia in Usa che altrove, e dal 1860 consolidò un ruolo fondamentale. Era già un prodotto consumato liscio, all’italiana, in centro-sud America, in Spagna, in Germania, addirittura in Inghilterra. È il prodotto italiano che forse per primo nell’eno-liquoristica, ha esportato il concetto di italianità e aperitivo nel mondo». Arrivando quindi a entrare nel panorama di abitudini di più culture.

5) Il vermouth non lavora bene con la frutta

Falsissimo. «Già solo le strutture di tipologie di cocktail storici, come Mint Julep, Cobbler, Smash dimostrano il contrario – ricorda Bargiani -. E abbinamenti di vermouth dolce con frutti di bosco e ciliegie, oppure dry vermouth con agrumi, albicocca, pesca, sono potenti e molto più interessanti di quanto si potrebbe pensare».

6) Il vermouth è utile solo nei classici

Basta guardare un po’ più in là per scoprire che non è così. «Se si guarda all’Argentina – spiega Leuci – si trovano numerosissimi abbinamenti con i sodati o i succhi che funzionano benissimo. Specialmente con l’implementazione di tecniche moderne, il vermouth non può essere relegato a un solo tipo di utilizzo, perché la sua versatilità lo porta a essere protagonista addirittura anche nel pairing: con formaggi e dolci funziona meglio di molti vini, nella sua versione dry va splendidamente con le ostriche. È duttile e offre possibilità di esplorare opportunità in più campi, che siano in miscelazione o gastronomia».

7) Il vermouth rimane un prodotto di nicchia per bartender

La seconda edizione del Salone del Vermouth, a Torino lo scorso febbraio, racconta tutt’altro. Cinquemila ingressi in due giorni, mille bottiglie vendute e un denso programma di talk e incontri divulgativi spalmati in entrambe le giornate, a testimonianza di un interesse crescente per il prodotto soprattutto tra i consumatori. C’è enorme margine per portare la conoscenza il consumo del vermouth a grandezze inesplorate, a patto che l’industria del bar comprenda il lavoro che serve per avvicinare soprattutto le nuove generazioni di bevitori, rinunciando al tecnicismo e spingendo invece sulla storicità, la qualità e la versatilità di un prodotto italiano fin nell’ultima erba aromatica.

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