Giorgio Bargiani suona la sveglia alla bar industry

Tali e tante sono la dedizione e la professionalità dedicata da entrambi al The Connaught, che anche solo nominando il mitico albergo di Mayfair, a Londra, si evocano i due italiani che ne hanno reso grande il The Connaught Bar: Agostino Perrone da Como, Director of Mixology che nel 2008 fu fautore della (ri)apertura del bar, e Giorgio Bargiani, pisano aggiuntosi nel 2014 e rapidamente assurto al ruolo di Assistant Director of Mixology.

Trentacinque anni, Bargiani è oggi uno dei volti più identitari dell’industria della miscelazione mondiale, collabora a livello globale dal 2022 con Bottega Cinzano, Campari e Campari Academy; bartender pluripremiato a livello internazionale, è il primo ospite della nuova rubrica Off the record su bargiornale.it

foto Lateef Photography

Si è concluso il tuo decimo anno al Connaught. Come si fa a rimanere ad altissimi livelli per tutto questo tempo?
Avendo dei principi, dei valori e degli obiettivi che pochi altri hanno, e soprattutto impostando una professionalità, un’idea di lavoro. In tanti rincorrono fama e gloria, classifiche e premi senza avere un piano: che si tratti di bartender, proprietari, manager, si chiedono riconoscimenti senza impegnarsi a costruire genuinamente contenuti o identità. Certo che servono i primi per realizzare la seconda, ma servono visione e solidità, prima di tutto.

Cosa pensi manchi al settore dell’ospitalità, in questo momento?
La disciplina, soprattutto nel modo di presentarsi: non è una questione di abbigliamento, quanto piuttosto di maniere, di modo di porsi con gli ospiti. In questo la routine privata gioca un ruolo fondamentale ed è incredibilmente sottovalutata: uno stile di vita regolare, uno studio costante, prendersi cura di sé, sono tutti elementi che aiutano poi il lato professionale. Il fatto che la bar industry sia un ambiente storicamente festaiolo non giustifica uno stile di vita estremo o una conseguente mancanza di rigore sul lavoro. Al contrario, bisogna essere professionali per professionalizzare la nostra figura: se pretendiamo di essere pagati come vogliamo, rispettati come lavoratori qualificati, ma poi al tempo stesso non ci poniamo come tali né nella forma né nei contenuti, siamo sulla strada sbagliata.

Cosa vorresti vedere più o meno spesso?
Due cose su tutte: vorrei una maggiore professionalità operativa, in termini di reattività alle e-mail, reperibilità, disponibilità. I bartender si sentono star giustificate a non rispondere a richieste di dati, dettagli di fatturazioni, specifiche per prodotti necessari alle guest shift e simili. Se chiediamo rispetto, dobbiamo dare rispetto. E poi, non vorrei più vedere bartender o professionisti del bar bere eccessivamente in servizio. Certo, ogni bar ha il suo stile e le sue regole, ma si ricordi che siamo pur sempre in orario di lavoro e si richiedono cura, attenzione e vigilanza.

«Se vogliamo essere pagati il giusto, dobbiamo porci come seri professionisti»

Capitolo The World’s 50 Best Bars: è una classifica che ha senso di esistere, nonostante le controverse modalità di gestione e valutazione?
Hanno sicuramente senso di esistere, la mediaticità dell’evento ha reso la classifica un riconoscimento che espone l’industria a un pubblico più grande e la valorizza. L’altro lato della medaglia è un metodo di valutazione non chiarissimo.

A proposito degli sponsor e dei brand: al giorno d’oggi, hanno troppo potere?
Hanno il potere di dare opportunità, fornire piattaforme educative e di network, e la gente ne ha un gran bisogno, sia chi ne ha fame che chi cerca una tipologia di lavoro diversa dall’operatività al bar. È indubbio che le aziende permettano un lavoro d’ufficio stabile o una visibilità indiretta molto importante; tutto questo, però, mette alcuni bartender in una posizione di sudditanza nei loro confronti o viceversa.

Il Connaught Bar è stato per due anni il miglior bar al mondo (2020 e 2021). L’ultima edizione lo ha visto uscire dalla top 10: avrebbe senso forse una sorta di Hall of Fame per i vecchi numeri uno, come succede per i migliori ristoranti al mondo?
Da interno ti direi che la Hall of Fame avrebbe senso, ma di contro se ci fosse stata nel 2020, anno in cui eravamo chiusi causa lockdown, non avremmo potuto confermarci come migliori al mondo l’anno successivo e goderci questo traguardo con i nostri colleghi e ospiti. Essere scalzati dalla vetta non piace a nessuno, ma essere ancora a ridosso dei piani altissimi dimostra che comunque, dopo tutti questi anni (il Connaught ha aperto nel 2008 ed è risultato in lista 14 volte dal 2011, sempre in top 10 eccetto 2014 e 2024, #11 e #13, ndr) siamo ancora là. E la costanza è la principale moneta di riconoscimento.

«il nostro Martini cocktail viene criticato, ma chi altri ne serve
più di 25 mila l’anno e può permettersi di giudicare?»

La tredicesima posizione dello scorso anno è giusta?
È opinabile. È giusto ci siano nuovi luoghi a essere premiati, bisogna continuare ad andare avanti e al tempo stesso ricordare cosa facciamo davvero e da dove veniamo: ci sono posti come il Dukes di Londra che magari nei 50 Best non è mai stato protagonista, eppure viene considerato, a ragione, un luogo sacro. Entrare nell’immaginario collettivo come luogo eccellente è già di per sé un successo clamoroso.

C’è chi critica il The Connaught Bar attribuendogli un valore più scenografico che qualitativo; altri commentano il vostro modo di preparare il Martini, ormai simbolo del bar, come tecnicamente sbagliato perché versato da troppo in alto, con troppa aria che si incorpora e così via. Cosa rispondi?
Il successo si misura a lungo termine. Se il The Connaught Bar è ancora dove è, nell’universo dell’ospitalità e certo non solo nelle classifiche, un motivo c’è. Quanto al Martini, chi stabilisce il livello tecnico di un cocktail bevuto da una piccola nicchia a livello mondiale? Quanti posti possono vantare una clientela composta all’80% da bevitori di Martini, che continua a tornare specificamente per quello? Chi serve più di venticinquemila Martini l’anno e può quindi avere un metro di giudizio sulla risposta del pubblico?

Pur essendoti stabilito a Londra da tempo, torni spesso in Italia per seminari e guest shift. Cosa manca al movimento bar italiano per un ulteriore salto di qualità?
La bar industry in Italia non è professionalizzante, non è soddisfacente dal punto di vista remunerativo e non è tutelata formalmente. Potremmo dire che all’estero è meglio sotto tutti questi punti di vista, anche se ovviamente varia da Paese a Paese. Escludendo l’aspetto manageriale, il mondo del bar in Italia è ancora oggi denigrato e non valorizzato come ambito di carriera, anche perché le figure che ne fanno parte sono poche e di conseguenza non si creano specializzazioni. Certo, rispetto a vent’anni fa la situazione è ben migliorata, ma non abbastanza.

«rischiamo di non avere una nuova generazione di leader»

Quali rischi corre l’industria, allora?
Il rischio è non avere una nuova generazione di leader. Non ci sono piani o programmi per coltivare i giovani talenti che all’ospitalità decidono di dedicarsi come missione e non come ripiego, quelli che scelgono di essere bravi mentori, più che bravi singoli. Nessuno si sta formando altruisticamente, così da essere in grado di far appassionare nuove generazioni, ci si muove spinti dall’ego e alla lunga non è mai positivo.

Esiste un momento in cui l’ospitalità diventa troppa, dannosa in qualche modo?
L’ospitalità ha sempre un’accezione positiva. Il problema è quando si trasforma in ospitalità forzata, espressa per tornaconto personale e non per accoglienza, quindi quella messa in atto per raggiungere scopi commerciali. Oppure quella fuori luogo: se non riesci a comprendere con chi stai parlando, a “leggere la stanza”, e ti concentri sul mettere in mostra le tue capacità senza preoccuparti che l’ospite capisca o abbia interesse, stai solo facendo tecnicismo. Di fatto, appunto, stai alimentando il tuo ego e nulla più.

Quali sono state le tue peggiori esperienze al bar nel corso delle tue guest night?
In realtà non credo di poterne identificare di specifiche, piuttosto (ed è la cosa preoccupante) si tratta di veri e propri schemi che si ripetono, potrei dire forse nel 70% delle mie esperienze come guest bartender. Capitano eventi nel quale è richiesto di preparare Martini per trenta persone, ma abbiamo solo sei bicchieri adatti a disposizione, per dirne una. Organizzare una guest night è un’occasione per promuovere il proprio bar, la propria attività, il proprio brand: quando si decide di investirci, spesso anche con risorse importanti, il resto della settimana o del mese deve passare in secondo piano, per forza di cose.

«Non devi concentrarti su di te, devi imparare a leggere
la stanza»

Come consumatore, invece?
Vedere bar senza identità: menu, decorazioni, bicchieri, tipo di servizio, linguaggio, maniere, cominciano ad assomigliarsi ovunque si vada. Peggio ancora, i cocktail sono praticamente tutti uguali, sia per struttura che per aspetto, manca personalità.

Tecnicamente, cosa vorresti sparisse dai menu?
Le cosiddette citrus coins messe come guarnizione sui cubi di ghiaccio. Possono essere utili da un punto di vita aromatico, ma visivamente sono asettiche, impersonali e statiche. Quindi negative.

Se dovessi individuare un messaggio da mandare, soprattutto alle nuove generazioni, alla luce della tua esperienza personale?
Mi rendo conto di come manchino delle procedure da seguire, una standardizzazione nei metodi di lavoro, una coerenza tra le esperienze che si possono vivere in ciascun locale. Manca soprattutto entusiasmo e questo può andar bene per lavorare in una stazione di servizio, ma per portare avanti un bar per come lo si intende noi, da osti veri, l’entusiasmo è imprescindibile.

Quindi il messaggio qual è?
Vorrei dire “sporcatevi le mani, organizzatevi e impegnatevi a lavorare davvero”. Vorrei essere ancora più diretto, ma non posso.

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