Italian Grape Ale: un matrimonio solido tra luppolo e mosto
Benjamin Franklin, scienziato e padre costituente degli Stati Uniti d’America, l’aveva fatto presagire. Sempre ovviamente che la celebre frase, a lui attribuita, sia autentica. «Nel vino c’è la saggezza, nella birra c’è la libertà e nell’acqua… ci sono i batteri», sembra abbia infatti detto l’inventore del parafulmine e delle lenti bifocali. A quale tipo di libertà facesse riferimento Franklin è questione d’interpretazioni. Per chi scrive si tratta della libertà d’espressione creativa che ogni birraio può manifestare. A differenza di chi produce vino infatti, soprattutto in Italia, i birrai soffrono molto meno dell’imposizione e dei limiti di disciplinari vari. Certo, le birre si fanno con acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito, ma nessuno vieta l’impiego di altri cereali. Per quanto riguarda luppolo e lievito c’è solo l’imbarazzo della scelta, e infine nessuno impedisce l’uso di altri ingredienti, che gli anglosassoni chiamano “adjuncts”, che possono modificare radicalmente colore, profumi e gusti della birra. I belgi lo sanno, e lo praticano, da anni: non a caso le witbier, birre con frumento non maltato, bucce d’arancio e coriandolo le hanno inventate loro. Ma lo sanno anche i birrai artigiani italiani che hanno esplorato in lungo e in largo le mille possibilità che quella definizione di Benjamin Franklin contiene.
L’Iga: lo stile che fonde vino e birra
Da quando sono apparsi i primi microbirrifici, alla metà degli anni Novanta, i piccoli produttori italiani hanno fatto birre con frutta e fiori, ortaggi e foglie di tabacco, usato barrique e provato a usare le castagne in tanti di quei modi diversi da aver fatto pensare che la “birra alla castagna” fosse uno stile birrario made in Italy. Forse, ma non è riuscito nell’impresa di farsi riconoscere come tale a livello internazionale. C’è riuscito invece lo stile Italian Grape Ale ovvero il punto d’incontro tra la birra e il vino, sebbene quest’ultimo sia presente sotto forma di acini o di mosto. Le Italian Grape Ale, abbreviate semplicemente in Iga, hanno ormai probabilmente superato le duecento etichette prodotte in quasi tutte le regioni. Un numero tale da meritarsi un concorso birrario ad hoc, l’Iga Beer Challenge, andato in scena lo scorso ottobre a Torino con circa 120 birre iscritte. Il fenomeno ha avuto per la prima volta il riconoscimento della patente d’italianità anche dal Beer Judge Certification Program, organizzazione americana che detta le regole più seguite in termini di catalogazione degli stili birrari esistenti nel mondo, tradizionali o innovativi che siano. Insomma, sebbene non siano state propriamente inventate dagli italiani, è dalle nostre parti che si trovano i campioni di uno stile innovativo quanto interessante. Le Iga hanno infatti le carte in regola per affascinare un pubblico nuovo per la birra: dallo sperimentatore seriale all’amante dei vini. Entrambi possono trovare in questo tipo di birre delle sfumature nuove, per certi versi una sorta di “terza via”, che apre la strada alla presenza delle Iga in ristoranti ed enoteche, dunque oltre i confini di pub, pizzerie e beer-shop.
La valorizzazione dei vitigni locali
Ma è proprio con birre come quelle del sardo Nicola Perra, uno degli apripista dello stile grazie alla sua BB10 con “sapa” – mosto cotto – di Cannonau, alla quale hanno fatto seguito una decina di etichette tutte con mosti di vitigni sardi, dalla Malvasia di Bosa alla Monica di Sardegna, o con la Tibir del piemontese Riccardo Franzosi, con mosto di Timorasso, che si stanno aprendo le porte di nuovi canali di vendita e si sta provando a conquistare un nuovo target di consumatori. Tanto che non deve nemmeno stupire che anche delle aziende vitivinicole abbiano iniziato a percorrere la strada delle Iga come nel caso di Felsina, storica azienda toscana del Chianti Classico, o della giovane Siemàn sui colli berici vicentini che produce vini naturali e, guarda caso, Italian Grape Ale.
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